NAT-LAB laboratorio naturalistico al Forte Inglese (Isola d'Elba)
Il Forte Inglese
Di proprietà del Comune di Portoferraio, è una struttura difensiva del ‘700, realizzata per volere di Cosimo III Granduca di Toscana al fine di proteggere la città. Ampliato da Napoleone durante il suo esilio all’Elba, il Forte è stato utilizzato in molti modi fino al recente restauro. Oltre alla valenza storica dell’edificio, il Forte si apprezza anche per la posizione panoramica che permette di dominare la città e la rada di Portoferraio.
Il laboratorio naturalistico NAT-LAB
Il NAT-LAB è il nuovo laboratorio naturalistico realizzato al Forte Inglese (Portoferraio), nel 2019 da World Biodiversity Association in collaborazione con Il Parco Nazionale. Presso il NAT-LAB è conservata la più importante collezione entomologica di specie presenti nell’Arcipelago Toscano. Qui i ricercatori naturalisti stanno lavorando alla creazione di altre raccolte zoologiche e botaniche dedicate all’Arcipelago Toscano. Il NAT-LAB favorisce la condivisione dei saperi, grazie ad un’aula didattica dedicata alla valorizzazione del patrimonio ambientale locale dove, su prenotazione, è possibile svolgere attività di laboratorio e studio sotto la guida esperta del Curatore Leonardo Forbicioni.
Per informazioni e prenotazioni consulta il sito di info Park www.parcoarcipelago.info
Mostra "Giorgio Roster" al Forte Inglese (Isola d'Elba)
Il Forte Inglese
Di proprietà del Comune di Portoferraio, è una struttura difensiva del ‘700, realizzata per volere di Cosimo III Granduca di Toscana al fine di proteggere la città. Ampliato da Napoleone durante il suo esilio all’Elba, il Forte è stato utilizzato in molti modi fino al recente restauro. Oltre alla valenza storica dell’edificio, il Forte si apprezza anche per la posizione panoramica che permette di dominare la città e la rada di Portoferraio.
Mostra Giorgio Roster
Nata dalla collaborazione fra Parco Nazionale e Comune di Portoferraio, è aperta, nei locali di Forte Inglese a Portoferraio in Via Giagnoni, 5 (sopra l'ospedale, salendo da Via San Rocco), la mostra dedicata a Giorgio Roster, scienziato fiorentino che frequentò assiduamente l’Elba a partire dal 1875. Medico igienista, si dedicò con passione alla mineralogia elbana, alla botanica e alla fotografia. La mostra “L’Elba di Giorgio Roster. La trasformazione del paesaggio tra Otto e Novecento negli scatti dello scienziato fotografo” raccoglie centinaia di fotografie dell’Elba di oltre un secolo fa, e consente un viaggio fra le sue eccellenze storiche, naturalistiche e geologiche, grazie alle immagini, agli oggetti appartenuti allo studioso e ai video sui personaggi del suo entourage. La presenza di un touch screen consente di accedere a parte della vasta collezione Roster presente nella biblioteca digitale del Museo Galileo, del Sistema Museale di Ateneo Università degli Studi di Firenze e della Biblioteca Comunale Foresiana di Portoferraio. La mostra è fruibile nei giorni e negli orari di apertura del Forte Inglese
Progetto Aliene (LIFE ASAP)
Presso Forte Inglese è disponibile uno speciale allestimento multimediale che consente di approfondire la conoscenza delle specie aliene del nostro territorio, diventando così sentinelle virtuali della biodiversità: giocando con la realtà aumentata si impara a riconoscere le specie aliene del Parco, a scovarle nell’ambiente circostante e a valutare i rischi e le minacce ambientali connessi alla loro diffusione.
Orari apertura anno 2024
Dal 1 marzo al 14 giugno e dal 16 settembre al 31 ottobre
ogni fine settimana dalle 16:00 alle 18:00
Dal 15 giugno al 15 settembre
tutti i giorni dalle 18:00 alle 20:00
Dal 1 novembre al 1 marzo
apertura in base al calendario eventi informazioni: Info Park Portoferraio
Villa Romana e mosaico nel criptoportico (Isola di Giannutri)
Visite al sito archeologico
A Giannutri, tra scogliere rocciose e sentieri profumati dalla macchia mediterranea, si ammirano i resti di una Villa di epoca romana: antico complesso residenziale con scalo marittimo, un tempo quartier generale per la sosta dei velieri e per l’otium, fu costruito nel I secolo d.C. dalla potente famiglia dei Domizi Enobarbi di cui Nerone fu un discendente.
Il sito archeologico è stato riaperto nel 2015. Per prenotare le visite contattare Info Park Tel 0565.908231. Oppure direttamente on line qui
A partire da giugno 2023 il Sito archeologico di Giannutri offre un nuovo prezioso gioiello da visitare: il "Mosaico del Labirinto". Le sue tessere bianche e nere hanno ritrovato il loro antico splendore dopo un complesso restauro. Ora campeggia al centro del labirinto il mito greco di Teseo che uccide il Minotauro e di Arianna che attende il suo eroe impugnando il famoso gomitolo di filo. Un'opera di recupero importante e delicata durata alcune decine di anni. E’ possibile visitare il Mosaico del Labirinto al costo di 5 €, rivolgendosi alle Guide Parco, presenti sulle imbarcazioni e sull’isola.
Informazioni presso Info Park Portoferraio, 0565 908231 e Info Park Giglio, 0564 809400. Il biglietto di ingresso aiuta a finanziarne la manutenzione e la cura dell’area archeologica.
Per approfondimenti sul Mosaico del Labirinto https://bollettinodiarcheologiaonline.beniculturali.it/wp-content/uploads/2023/06/2023_1_MILLETTI_et_al.pdf
Storia
In epoca romana Giannutri, come altre isole dell’Arcipelago Toscano tra cui il Giglio, fece parte dei possedimenti della potente famiglia dei Domizi Enobarbi. Importante esponente dell’oligarchia legata ai traffici commerciali, la Gens Domitia, di cui Nerone fu un discendente, costruì nel I secolo d.C. a Giannutri un notevole complesso residenziale e uno scalo marittimo: un vero e proprio quartier generale per la sosta dei velieri e per l’otium. Tracce dell’antico porto romano sono evidenti a Cala dello Spalmatoio, mentre i resti di una sontuosa villa si trovano sulla panoramica Punta Scaletta, nei pressi di Cala Maestra. Il complesso degli edifici che componevano la villa si dividevano in cinque gruppi: il primo su Cala Maestra, costituito da opere portuali e una grande cisterna per l’acqua tuttora in uso, composta da vani comunicanti con un sistema di regolazione del livello del liquido. Il secondo gruppo era formato da magazzini e dimore per i servi. Un terzo complesso di edifici era composto da abitazioni signorili e terme, con pareti dipinte e pavimenti di mosaico. Il quarto gruppo consisteva in abitazioni per la servitù, mentre il quinto era dato dal belvedere della villa che dominava dall’alto tutte le altre costruzioni. Sulla terrazza sorgeva una costruzione con colonne di granito locale, capitelli corinzi e basi di marmo.La villa fu abitata fino alla fine del III secolo quando, abbandonata dai proprietari, cadde lentamente in rovina. I resti attuali furono riportati alla luce nel corso di una campagna archeologica condotta alla fine del 1800.
La riapertura del sito nel 2015 un evento molto atteso
Il sito archeologico della Villa Romana a Giannutri è stato inaugurato alla presenza del Presidente del Parco Giampiero Sammuri e del Soprintendente Archeologo Andrea Pessina. Sono state invitate autorità, stampa e forze dell’ordine. Il sito è stato aperto ai visitatori dal 2 luglio 2015 e visitabile con guide specializzate. La riapertura è stata gestita con guide, formate appositamente dalla Soprintendenza archeologica e pagate dal Parco, che accompagneranno i visitatori nel percorso archeologico . Ci sarà un biglietto di ingresso i cui proventi saranno reinvestiti nella manutenzione La sovrapposizione di competenze sull’Isola di Giannutri rende complicate le decisioni e gli interventi, ci sono voluti numerosi incontri e tavoli tecnici per discutere e affrontate con tutti gli Enti di competenza le svariate forme di criticità riguardanti l’Isola. Anche il percorso per la riapertura del sito archeologico ha avuto bisogno di tempo.
L’evento di rispertura è stato molto atteso dal territorio, dai visitatori e dagli operatori turistici, specie quelli della costa etrusca. Il sito archeologico di Giannutri è di grande interesse ed rimasto chiuso per troppi anni per motivi di sicurezza. La stretta collaborazione e l’investimento in risorse sia tecniche che economiche sono state orientate per valorizzare e rendere fruibile la grande ricchezza culturale dell’Isola a fianco alla fruizione ambientale. L’apporto economico e tecnico della Soprintendenza è stato indispensabile, il Parco ha sostenuto economicamente l’operazione, collaborando a progettare con gli Archeologi modalità sperimentali di visita alla villa romana e ai suoi annessi facendosi interprete della richiesta dei visitatori dell’isola ormai diventata pressante dopo anni di chiusura del sito.
Nella progettazione sono stati previsti lavori vari di messa in sicurezza, mediante nuova scala di accesso e sistemazione di sentieristica nell’area residenziale della villa, il rifacimento del pannello all’ingresso dell’area residenziale e l’introduzione di nuovi pannelli esplicativi oltre a interventi di manutenzione ordinaria e di adeguamento della sentieristica per la messa in sicurezza,Per favorire il programma di visite guidate il Parco ha poi provveduto alla selezione di 7 guide che dovranno accompagnare un numero massimo di 25 visitatori a turno, con tre turni giornalieri.
La Soprintendenza ha fornito tutta la documentazione e i contenuti provvedendo anche alla formazione specifica delle guide selezionate, fornendo materiale didattico, planimetrie dei percorsi di visita e delle varie aree della villa romana utili alle informazioni e ad una comunicazione corretta.
Fortezza del Volterraio (Isola d'Elba)
Restaurata dall’Ente Parco, la Fortezza del Volterraio, uno dei luoghi storici più amati dagli elbani, oggi è di nuovo visitabile. Grazie alla sua posizione strategica e panoramica, il Volterraio è il sito più suggestivo e magico dell’isola, soprattutto se raggiunto al tramonto. La fortezza svetta dai suoi 395 metri s.l.m. incastonata nella roccia da cui emerge come per incanto. Il luogo fu scelto dagli Etruschi per edificare la prima postazione di avvistamento e, sempre nel periodo etrusco, l’altura faceva parte di un intelligente ed efficiente sistema di villaggi fortificati di collina fra i quali, sembra, si comunicasse accendendo fuochi. La struttura assunse una fisionomia definitiva alla fine del 1200 quando la Repubblica Marinara di Pisa ne decise la riqualificazione. Una fortezza imprendibile ieri, una suggestiva terrazza sull’Elba e sulle altre isole dell’Arcipelago Toscano oggi. Un panorama mozzafiato mostra il profilo della dorsale orientale dell’Elba e all’orizzonte la forma esile dell’isola di Pianosa e l’austera sagoma di Montecristo. Di fronte a noi la parte centrale dell’isola con le morbide colline, gli ampi golfi meridionali e l’inimitabile morfologia del golfo di Portoferraio con alle spalle il massiccio imponente del monte Capanne. Più a destra la selvaggia isola di Capraia e, sullo sfondo, le montagne innevate della Corsica con Capo Corso, proteso verso il nord.
Modalità e tipologia di visita
1) Visita guidata della Fortezza del Volterraio. Trekking e ingresso inclusi.
L’orario di partenza sarà adeguato alla stagione e comunicato al momento della prenotazione. L’escursione verrà effettuata al raggiungimento di un numero minimo di 6 partecipanti. Sono necessarie calzature adatte a terreni impervi e, per le escursioni pomeridiane, strumenti d’illuminazione come frontalini o torce.
Prenotazione obbligatoria.
Consulta il calendario delle escursioni disponibili su parcoarcipelago.info
Per sapere date e orari e prenotare chiamare Info Park TEL: 0565 908231 oppure prenota direttamente qui:
https://www.parcoarcipelago.info/la-fortezza-del-volterraio/
Il restauro della Fortezza del Volterraio
8ª tappa Via dell'Essenza - Via del Mirto
Lasciato Procchio cominciamo a salire in direzione di Monte Castello attraversando una macchia di mirto, lentisco e corbezzolo. Arrivati nei pressi del sito archeologico visitiamo le rovine dell'antica fortezza Etrusca, costruita in una posizione strategica da cui si domina il golfo di Procchio a Nord e quello di Marina di Campo a Sud. Il cammino prosegue in leggera discesa fino al bivio di Colle Reciso, da qui la via si fa più ampia e prosegue panoramica fino al Salicastro, da dove ritorniamo su un sentiero più stretto, circondati da una fitta macchia di corbezzolo. Saliamo in direzione del Poggio di San Prospero, il tragitto, un tempo percorso quotidianamente da contadini e pastori, prosegue in gran parte ombreggiato fino a Campobagnolo, ma di tanto in tanto si apre offendo grandi scorci panoramici sulla costa Nord dell'Elba e sul lontano continente. Arrivati al bivio della Madonna del Buonconsiglio percorriamo un breve tratto sulla strada asfalta per poi riprendere un sentiero con cui scendiamo dalla Valle del Lavacchio dove domina il profumo del mirto, per terminare il nostro percorso sul lungomare di Marciana Marina, dopo avere attraversato gli antichi vicoli che collegavano la marina alla sua campagna.
7ª tappa Via dell'Essenza - Via dei Lecci
A lacona, in Via dei Vigneti, si imbocca il sentiero n. 215 che sale fino alla Serra del Pero. Dopo aver attraversato una fitta lecceta si arriva al bivio con il sentiero n. 214 che conduce a Monte Barbatoia. Pochi metri più avanti si trova il bivio con la GTE dove si svolta a sinistra. La Grande Traversata Elbana in questo tratto centrale dell’isola coincide con una strada militare costruita in occasione del secondo conflitto mondiale. Da notare alcuni pregevoli manufatti in granito come le pietre le pietre miliari e le opere di regimazione delle acque. A lato della strada si possono poi ammirare alcuni imponenti esemplari di leccio (Quercus ilex). Un esempio del tipo di vegetazione che, prima dei tagli boschivi operati dall’uomo fin dall’antichità, diversi secoli fa ammantava tutta l’isola. Giunti ad un quadrivio, dove la strada svolta verso sud, si abbandona la GTE imboccando sulla destra il sentiero n. 248. Dopo poco si arriva ad un bivio dove si mantiene la sinistra. Inizia qui, nei pressi di Monte Pericoli, un breve tratto in cui i sentieri 248 e 245 coincidono. Al successivo bivio, dove i sentieri si sdoppiano, continuiamo dritti sul sentiero n. 245 che scende fino all’attraversamento della trafficata strada provinciale Portoferraio-Procchio, nei pressi di Colle Pecorino dove è ubicata una piccola chiesa. In questo punto si prosegue a destra sul sentiero n. 245 imboccando la ripida discesa che segue i piloni della linea elettrica. Il tracciato corre poi parallelo al fosso della Lamaia che sfocia nella graziosa spiaggia omonima creando una piccola zona umida dove vegeta rigoglioso un canneto. Nelle immediate vicinanze si possono osservare alcune piante tipiche delle spiagge come la calcatreppola che forma bassi cespugli dalle foglie molto coriacee e spinose, la nappola vistosa specie ben riconoscibile dalle infruttescenze ovali spinose ed uncinate, ed il ravastrello dai piccoli fiori rosei. Il tracciato segue poi la linea di costa arrivando poco dopo alla più piccola spiaggia del Porticciolo. Da qui si sale più alti sulla costa inoltrandosi in una ombreggiata lecceta fino ad arrivare alla spiaggia di Procchio.
6ª tappa Via dell'Essenza - Via dei Rosmarini
Delle 8 tappe della via dell’essenza, la via dei rosmarini è quella più lunga. La prima parte del tracciato è pianeggiante e facilmente percorribile. Si parte dal porticciolo di Marina di Campo. Dopo aver costeggiata l’ampia spiaggia, si oltrepassa il fosso de La Foce e, percorsi pochi metri di scogliera, si imbocca il sentiero n. 248 che si inerpica tra le abitazioni. In pochi minuti si giunge ad un’ampia carrareccia panoramica e pianeggiante dove la costa a picco sul mare si affaccia sul golfo di Marina di Campo. Immersi nei profumi dei rosmarini, qui particolarmente abbondanti, si passa successivamente poco sopra la minuscola spiaggia di Ischia dove la scogliera degrada dolcemente. Qui il sentiero si fa stretto e, mediante saliscendi che consentono di oltrepassare alcuni impluvi, giunge alla spiaggia di Fonza. Si prosegue con il medesimo andamento fino ad arrivare alla salita che conduce al Monte Fonza, punto più alto del nostro itinerario, dove si imbocca a destra, in discesa, il sentiero n. 248 A. Poco dopo si incontra il bivio con il sentiero n. 250 che imbocchiamo verso nord svoltando a sinistra. Si cammina tra le ginestre che nella stagione primaverile tappezzano i versanti di giallo in un paesaggio affascinante dove non sono presenti insediamenti abitativi. Il percorso segue la linea di costa che delimita ad ovest il Golfo di Lacona, supera il bivio per la spiaggia di Laconella ed arriva, oltrepassato un campeggio, sulla strada provinciale che conduce al centro abitato di Lacona.
5ª tappa Via dell'Essenza - Via dei Ginepri
La via dei Ginepri inizia nei pressi del campo sportivo di Seccheto imboccando il sentiero n. 195. Nella prima parte il percorso coincide con le “vie del granito”, una rete di sentieri che consentono di raggiungere diversi antichi manufatti in granito e siti prestorici. Si prosegue poi sui panoramici sentieri n. 193 e poi 192, caratterizzati dalla presenza di rocce fratturate tipiche dell'anello termometamorfico fino alla strada asfaltata che seguiremo per un breve tratto. Imboccata la stradina di Colle Palombaia che prosegue come un viottolo (n.138) l'itinerario si stacca dal massiccio del Capanne per inoltrarsi lungo alcuni contrafforti costituiti per lo più di strati di roccia sedimentaria. Il sentiero segue a tratti la costa a picco sul mare, un tempo coperta da terrazzamenti coltivati, con zone di diretta esposizione lungo la scogliera, inoltrandosi a volte nella vegetazione boscosa dei versanti settentrionali. Giungeremo così a monte della spiaggia di Galenzana per scendere in prossimità del più vecchio agglomerato del paese di Marina di Campo. Lungo il tracciato sono posizionati 5 picchetti che segnalano i seguenti punti di interesse :
Punto di interesse 5 A - La storica estrazione del Granito
La granodiorite isolana è stata oggetto di una millenaria estrazione come materiale da costruzione per le sue caratteristiche strutturali e ornamentali e definita tradizionalmente come granito dell'Elba. Essa viene descritta come pietra ornamentale caratterizzata da un mosaico di macchie bianche e grigie, di forma da irregolare a rettangolare e dimensioni da millimetriche a centimetriche tra le quali sono presenti anche macchie nere più piccole. Sulle pendici meridionali del Monte Capanne, sopra i lidi di Cavoli e Seccheto sono sparsi antichi cantieri che si estendono fino alla costa, dove a partire dall'epoca romana è stata estratta la chiara roccia ignea che veniva usata per realizzare colonne e altri manufatti: le macchie sono costellate di strutture già complete o sbozzate e poi abbandonati, a volte inspiegabilmente sui fianchi granitici nei quali erano stati estratti. Lo stesso nome Cavoli deriverebbe proprio dal latino Cavulae, alludendo alle piccole cave, presenti nella zona nell'antichità. Anche lungo la costa sono presenti i segni dell'attività estrattiva con le cave marittime situate nei pressi della baia di Seccheto e nella zona delle “Piscine” tra Fetovaia e Seccheto, dove la scogliera sarebbe stata modificata per l'estrazione della pietra realizzando delle cavità in cui il mare entra formando delle vasche apparentemente “naturali”. I Romani hanno usato il granito elbano per l'edificazione del Pantheon e in altri celebri monumenti dell'antica Roma, mentre sarebbero di reimpiego medievale le 18 romane colonne nella cattedrale di Aquisgrana. Nel medioevo il granito elbano fu impiegato nella costruzione del duomo e del battistero di Pisa e in altri monumenti religiosi nella città della repubblica marinara toscana. I Medici avrebbero ancora usato il granito elbano a Firenze nei vasconi e altre strutture ornamentali del giardino di Boboli e in vari monumenti cittadini. L'estrazione del granito è continuata fino ai giorni odierni: nei secoli scorsi la chiara pietra elbana veniva usata per la realizzazione di banchine portuali, pavimentazioni cittadine e cordoli stradali mentre oggi l'attività è andata riducendosi per quantità di pietra estratta ma raffinandosi per tipologia di prodotti realizzati quali elementi decorativi di abitazioni e ville, insieme a strutture pregiate per l'arredo urbano.
Punto di interesse 5 B - La fornace di calce dei Pini Grandi sopra Cavoli
Lungo tutta la costa elbana, ma a volte anche in località più interne, nei luoghi dove erano presenti affioramenti di rocce calcaree, sin dalle epoche antiche furono realizzate numerose fornaci per la produzione della calce. Si trattava di grandi strutture per ottenere, tramite la cottura della pietra, la calce utilizzata per le attività edilizie, per la saldatura delle pietre da costruzione e per intonacare gli edifici. La loro forma era caratterizzata da una struttura cilindrica realizzata con pietra resistente al calore, rinforzata con una camicia interna di blocchi cementati con argilla, con un'apertura superiore, o camino, per il carico della pietra calcarea e una bocca, nella parte inferiore che serviva dapprima ad inserire le tante fascine necessarie all'alimentazione del fuoco per la cottura del calcare e successivamente, alla fine del processo, per estrarre la calce prodotta. Spesso la struttura cilindrica era incassata in un terrapieno, facilitando le operazioni di carico del calcare dall'alto e per mantenere il calore nella fornace. La muraglia interna della costruzione era inoltre plasmata di terra refrattaria. La pietra calcarea da trasformare era disposta sapientemente in circolo all'interno della fornace, appoggiandola alla parete della struttura, fatta eccezione per quella porzione corrispondente alla bocca. Sempre con l'attento posizionamento delle pietre da cuocere si realizzava una camera di combustione con cupola interna con un'altezza di un metro e mezzo dalla base, completando il riempimento della fornace fino alla sommità. Nella camera di combustione venivano messe le fascine di legna per l'accensione per un processo di cottura che poteva durare dai 7 ai 10 giorni, fino a impiegare sei-settemila fastelli. Il riscaldamento del forno doveva essere lento e progressivo per evitare l'annerimento della pietre e che la parte interna del calcare rimanesse crudo. Nella trasformazione si superavano i mille gradi di temperatura e quando finalmente dall'alto apparivano fiammelle azzurre significava che la pietra aveva raggiunto la sua cottura. La calce viva così prodotta era estratta sotto forma di polvere o ancora con la sua struttura solida, seppur fortemente degradata chimicamente, per essere trasportata e successivamente “spenta” con l'acqua sui cantieri di impiego.
Punto di interesse 5 C - Il ginepro fenicio (Juniperus phonicea) e altri ginepri presenti all'Elba
E' un piccolo albero sempreverde: in condizioni ottimali può crescere fino ed oltre 8 metri, ma nelle impegnative situazioni dei substrati rocciosi costieri, con condizioni di aridità e di diretta esposizione ai venti, la pianta rimane delle dimensioni di un arbusto di portamento medio-grande e allargato, se non addirittura con forme da bonsai. Presenta una corteccia che si sfalda a nastri lasciando intravedere il sottostante strato rossastro. Le foglie sono molto piccole, squamiformi e appressate ai rametti e di colore verde intenso: non sono pungenti, caratteristica che le distingue da quelle di altri ginepri. Particolare è la struttura aciculare del fogliame dei giovani esemplari, che però muta con lo svilupparsi delle piantine. I fiori sono piccole spighe pendule portate in amenti sui giovani rami. I frutti, a maturazione biennale, non commestibili, sono detti galbuli, simili a delle bacche, di consistenza legnosa e tondeggianti, del diametro di circa un centimetro, che assumono un colore bruno rossastro a maturazione. E' elemento dominante di macchie tipiche delle aree marittime, zone talvolta aspre e rocciose; è specie eliofila che di solito all'Elba incontriamo in buone esposizioni meridionali o occidentali, preferendo terreni calcarei. All'Elba è presente anche il ginepro coccolone (Juniperus oxycedrus macrocarpa), arbusto o alberello alto fino a 5 metri, ma che spesso incontriamo con minori dimensioni, sopratutto nelle situazioni rupestri dove può assumere portamenti da bonsai. Il suo fusto è eretto, però lungo le coste può risultare inclinato dai venti dominanti. La sua corteccia è grigio rossastra. Presenta rametti bruno-rossastri con foglie appuntite di un verde glauco. I fiori sono poco appariscenti, mentre sono ben evidenti i frutti, i galbuli o coccole, strutture simili a bacche, inizialmente verdi chiare e poi brunastro - opache con diametro di 12 -15 mm. E' specie caratteristica della macchia mediterranea colonizzando terreni difficili quali le dune costiere, le coste e le pareti rocciose.
Punto di interesse 5 D - Il Flysch
In questo tratto il nostro sentiero incontra una formazione geologica di origine sedimentaria denominata Flysch cretaceo costituita fondamentalmente da strati di calcari marnosi e marne grigio scure con livelli di arenarie e di conglomerati. La parola Flysch ha origine nella Svizzera tedesca e significa pendio scivoloso o terreno che scivola, indicando la serie di strutture geologiche formatesi soprattutto nel periodo cretaceo superiore (65 – 100 maf) nelle zone pelagiche dell'antico mare della Tetide in seguito ad imponenti frane sottomarine lungo la scarpata continentale. Nel precipitare e depositarsi sul fondo del bacino oceanico erano i sedimenti più pesanti e grossolani a fermarsi per primi sul fondale, formando i livelli di conglomerati e arenarie, mentre i sedimenti più fini come le argille finivano per depositarsi per ultimi creando gli odierni strati marnosi. Gli eventi franosi si sono succeduti più volte in seguito agli importanti movimenti della tettonica compressiva avvenuti di quel periodo geologico nella Tetide. Si sono formate così le calcareniti torbiditiche, o Flysch cretaceo, riscontrabili nell’Elba centro - occidentale, da Buraccio alla costa settentrionale e meridionale isolana: nelle zone da Enfola e Punta della Guardiola, vicino a Procchio, a Nord, dal Golfo di Lacona al Golfo di Campo, fino a Galenzana, Capo Poro e nell'area che appunto stiamo attraversando a Sud. Tra queste formazioni troviamo le arenarie di Ghiaieto con i più significativi affioramenti presenti a ridosso della spiaggia sul lato occidentale del Golfo di Lacona dove sono presenti anche livelli di conglomerati. Nelle zone citate si alternano fondamentalmente livelli di arenaria data dalla litificazione di antichi depositi sabbiosi accumulatisi in quei profondi ambienti marini e livelli di marna e calcari marnosi. La marna è una roccia sedimentaria dalla granulometria fine, composta da un insieme di calcite e minerali argillosi circa in parti uguali e può contenere tracce di quarzo, miche e residui carboniosi. Se la percentuale carbonatica supera i due terzi della composizione totale abbiamo i cosiddetti calcari marnosi. La formazione è ampiamente interessata da estese intrusioni di filoni e laccoliti originatisi alla nascita del plutone magmatico del Capanne.
Punto di interesse 5 E - Il piano d’azione per la tutela dell’habitat “Matorral arborescenti di Juniperus phoenicea” nell’isola di Pianosa – Il Progetto LIFE Natura
L'Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano è intervenuto per la salvaguardia del ginepro e dell'Habitat ad esso collegato limitando lo sviluppo dell''ailanto ma soprattutto del pino d'Aleppo, piante alloctone in competizione con questa importante specie, con un progetto LIFE che ha avuto luogo sull'Isola di Pianosa. L’habitat “Boscaglie costiere a dominanza di Juniperus phoenicia ssp. turbinata” (Cod. Natura 2000: 5212 “Matorral arborescenti di Juniperus phoenicea”) costituisce una delle emergenze vegetazionali dell’Arcipelago Toscano. Il ginepro fenicio è presente in Italia solo in aree costiere , sia in aree sabbiose, dove entra a far parte della tipica flora arbustiva di colonizzazione delle dune assieme a Juniperus macrocarpa, sia su roccia, di natura preferibilmente calcarea. Si tratta di una specie eliofila e termoxerica, molto resistente all’aerosol marino ed estremamente longeva che può stabilizzarsi in un sito idoneo rimanendo anche dopo che la vegetazione viene distrutta e quindi partecipando a vari tipi di formazioni legate fra loro dinamicamente. In Toscana la specie è presente, con formazioni significative, solo a sud di Rosignano. Tra quelle presenti su coste rocciose, le più rilevanti risultano essere localizzate nelle seguenti aree: promontorio di Piombino, Isola d’Elba, Isola di Pianosa, Parco della Maremma, Monte Argentario, Isola del Giglio e Isola di Giannutri. Le formazioni più estese e meglio conservate sono presenti a Pianosa e secondariamente a Giannutri. Nell’isola di Pianosa l’habitat dei ginepreti costieri risultava minacciato dalla progressiva espansione del pino d’Aleppo (Pinus halepensis) a partire da nuclei di origine artificiale di questa specie. Uno degli principali obiettivi del progetto LIFE-Natura è stato pertanto quello di salvaguardare i ginepreti costieri da questa minaccia, favorendo anche una ulteriore espansione, contenendo e limitando il pino d'aleppo lungo alcune fasce litoranee della più piatta isola d'Arcipelago Toscano.
4ª tappa Via dell'Essenza - Via dei Cisti
La via dei cisti si sviluppa lungo la porzione sud occidentale del massiccio del Capanne partendo dal nucleo di Pomonte per giungere al mare ai piedi dell'abitato e risalire, in corrispondenza della spiaggia dell'Ogliera, sulla viabilità provinciale che dovremo seguire a tratti per imboccare alcuni viottoli e stradine che la fiancheggiano, ora a valle e ora a monte del nastro asfaltato. La via prosegue attraverso la varietà geologica delle rocce dell'anello termometamorfico, arrivando fino alla spiaggia di Fetovaia, chiusa a ovest dal suggestivo promontorio, una delle poche irregolarità lungo la tondeggiante costa dell'Elba occidentale. Dopo essere saliti ancora al livello della provinciale imbocchiamo il sentiero 135 per inerpicarci ripidamente in una ricca vegetazione di ginestre e mirti, dominando con spettacolari vedute il golfo delimitato dalla spiaggia di sabbia chiara e bagnata da acque verde smeraldo, fino alla zona della Sughera, area pianeggiante (339 m slm) caratterizzata dalla macchia a cisti, e dalla presenza di resti dell'epoca preistorica. Da qui il sentiero n.137 ci condurrà altrettanto decisamente verso l'abitato di Seccheto, altra tipica frazione costiera, oggi paesino legato soprattutto al turismo e un tempo abitato da agricoltori e scalpellini dediti all'estrazione del granito. Lungo il tracciato sono posizionati 5 picchetti che segnalano i seguenti punti di interesse :
Punto di interesse 4 A - La storia della valle di Pomonte
La valle di Pomonte fu sede di antichi insediamenti e anche l'attuale nome dell'abitato potrebbe derivare dal latino "Post Montem", " al di là del monte", ma diversi autori ricordano anche il medievale "Pedimonte", ai piedi della montagna, riferendosi ovviamente al rilievo del Monte Capanne, con la relativa trasformazione del nome in Pemonte corrotto poi in Pomonte. I primi insediamenti furono tuttavia precedenti all'età romana, come testimonierebbero i ritrovamenti di manufatti di rame e di bronzo risalenti alle relative culture, la cui esistenza sull'isola sarebbe collegata al periodo che va approssimativamente dal 2000 all'800 a.C., reperti rinvenuti soprattutto nelle località più alte della vallata quali Le Mura, Campitini e San Bartolomeo. Successive frequentazioni in epoche etrusche e romane sono documentate, oltre che dal toponimo, dalla presenza di due relitti di nave nel mare antistante la vallata e dalla quantità di scorie prodotte dalla riduzione del minerale di ferro riese, rinvenibili lungo la costa. Avendo già sfruttato gran parte delle foreste dell'Elba orientale ci si apprestava a sfruttare il legname del Capanne, data la grande quantità di carbone di legna ingoiata dai forni fusori. Ma è solo nel Medioevo che si parla di un "Comune Pedemontis", sotto giurisdizione pisana. Gli abitati per il pericolo delle incursioni saracene sorgevano in altura, e molto probabilmente il principale nucleo abitativo doveva trovarsi in corrispondenza delle rovine dell'oratorio di San Benedetto in località La Terra a 460 metri sul mare dove sono stati trovati i resti di alcune abitazioni. Altri ancora sono i resti di antichi edifici nell'ampia vallata pomontinca, quali gli oratori di San Biagio, San Frediano e San Bartolomeo, in un luogo chiamato l'Oppito, rilevato anche dal prof. G. Monaco. Una grande frana sviluppatasi nell'ottobre del 1990 a partire dai rilievi orientali della vallata avrebbe portato alla luce resti di antiche attività metallurgiche legate alla riduzione del minerale di ferro. Fortunato Pintor "Nel Dominio Pisano nell'Isola D'Elba" del 1898, accennando ai terribili danni alla popolazione causati dalla peste del 1348 ci fa sapere che nel Comune di Pomonte erano rimasti "40 Homines"(40 capofamiglia). Pisa interveniva allora per alleviare le sofferenze degli Elbani con una riduzione delle gabelle. Ancora peggiore doveva essere la sorte della popolazione nel 16° sec. quando i pirati turchi guidati dal Barbarossa e poi da Dragut decretarono la fine dell'antico centro abitato, raso letteralmente al suolo. Solo nel XIX secolo è rinato l'odierno abitato di Pomonte, prossimo al mare, risorto prima come centro agricolo ed oggi come frazione turistica e residenziale, in seguito al completamento nella seconda metà degli anni 60' dell'anello stradale che circonda il Capanne.
Punto di interesse 4 B - I cisti: il cisto marino
Il genere cistus è composto da specie arbustive e fruticose tipiche della macchia mediterranea la cui fioritura è caratterizzata da fiori vistosi a simmetria raggiata con una corolla formata da cinque petali bianchi o rosati. I cisti trovano il loro ambiente ideale nei suoli costieri poveri di calcio. Il nome cisto deriverebbe dalla parola greca kystis che significherebbe piccola vescica indicando la capsula che contiene i minuti semi. Tra le specie più diffuse sulla nostra isola c'è il Cistus monspeliensis, il cisto di Montpellier noto anche come cisto marino, una pianta perenne dal portamento cespuglioso ed eretto, alta tra i 50 e 120 cm, dal fusto robusto e legnoso nella porzione inferiore, con corteccia bruna, con i rami più giovani, erbacei e pelosi, tra il verde e grigio. Sono particolarmente caratteristiche le foglie sessili, di un verde intenso, opposte e lineari, resinose al tatto che emettono il tipico odore aromatico che riempe l'atmosfera dei pendii che ospitano i suoi cespugli. Abbondante è la fioritura che avviene in primavera: tanti fiori bianchi piccoli e delicati (fino a tre cm di diametro) ma vistosi per il colore candido, ammantano le macchie con cinque petali con al centro il nucleo giallo degli stami. Il frutto è rappresentato da una capsula sferoidale contenente i semi. Durante la stagione calda le sue foglie sembrano seccarsi e virare al colore bruno per riprendersi e tornare fresche alla prima pioggia autunnale. Si tratta del cisto più abbondante, crescendo nelle garighe, nelle macchie basse e degradate e negli ambienti rivieraschi. E' pianta pirofita, tra le prime a colonizzare i terreni attraversati dal fuoco per la proprietà dei semi di resistere alle alte temperature. E' una specie visitata da insetti di tutti i tipi e vi abbondano le Cetonie (Cetonia aurata). Tra aprile e maggio, specialmente nei momenti più freschi e umidi della primavera alla bianca fioritura si accompagnano le tante macchie chiare della schiuma prodotta dalla neanidi della Sputacchina (Philaenus spumarrius), stratagemma che protegge i piccoli insetti dalla disidratazione e dai predatori.
Punto di interesse 4 C - La serpentinite
Si tratta di una roccia metamorfica appartenente al gruppo delle ofioliti: sarebbe stata proprio tale roccia verde dal colore della pelle di un serpente, dalla parola greca ofios che indica proprio questi rettili dalla colorazione verdastra, a dare il nome alla serie di formazioni geologiche, antiche porzioni di crosta oceanica e mantello trasposte su aree continentali durante i processi di orogenesi. La serpentinite, caratterizzata da diverse tonalità verdi più chiare e più scure, presentando strutture fibrose, massive e cristalline, deriva dal metamorfismo di peridotiti ed è costituita principalmente da silicati di magnesio. All’Elba è riscontrabile in varie zone, soprattutto nella zona centrale ed orientale (Poroferraio, Le Grotte e Schiopparello, Golfo Stella, Monte Fico), ma anche nella parte occidentale isolana che stiamo attraversando con la via dell' Essenza: qui vaste porzioni sono state trasformate in oliviniti e anfiboliti in seguito al metamorfismo termico operato dalla risalita del plutone del Monte Capanne. In Toscana la serpentinite viene comunemente indicata come marmo verde ed è stata impiegata in molte strutture architettoniche, legate soprattutto al romanico toscano per dar luogo alla tipica bicromia bianco – verde. All’Elba la serpentinite è stata impiegata per creare la bicromia dei muri nella maestosa villa romana delle Grotte. Nel versante orientale (pendici orientali del Monte Serra) è presente una serpentinite particolarmente ricca di calcite (Oficarbonato o Oficalcite) celebre come marmo di Santa Caterina e ricordata anche dal naturalista Ermenegildo Pini (1777) come marmo mischio di color bianco venato di verde nericcio. Poco a monte dell’eremo di Santa Caterina era infatti una antica cava usata per estrarre tale varietà litica impiegata con finalità ornamentali e per creare gli altari delle chiese di Santa Caterina e di Rio nell’Elba. Il marmo di Santa Caterina sarebbe stato stato impiegato anche nella realizzazione della pavimentazione del museo Demidoff a San Martino, presso la residenza di campagna di Napoleone.
Punto di interesse 4 D - Le necropoli della Piana della Sughera
La Piana della Sughera è un pianoro esteso per circa 200 metri con un asse Est – Ovest a circa 350 metri sul mare a monte delle frazioni costiere di Seccheto e Fetovaia. Il luogo, nell'Elba rurale di una volta, quando ogni fazzoletto di terra era coltivato, era tenuto a grano marzolino e nei pressi del sentiero che lo attraversa è visibile ancora un grosso erpice in ferro impiegato per la coltivazione. Sono però le testimonianze storiche presenti che hanno reso celebre questa modesta area pianeggiante: alle estremità della spianata si trovano infatti i resti di antiche necropoli di epoca megalitica. Sul lato orientale presso la cosiddetta zona A si trovano due sepolture caratterizzate da due grandi lastre di granito a ricavare un incavo largo circa mezzo metro alla sommità e allargandosi leggermente alla base fino ad 80 cm. Nella parte occidentale (zona B) sarebbero tre le strutture dalle caratteristiche megalitiche: un menhir alto circa quasi tre metri ma spezzato in due parti presso una sepoltura, la base, alta circa un metro, di un altro monolito, apparentemente fratturato e una grande sepoltura con il vano per il defunto circondato da cumuli di pietre, che però, a parere degli archeologi, sarebbe stata rimaneggiata in epoche successive. Ancora nelle vicinanze sarebbero molte pietre infisse nel terreno, simili alle pietre fitte riscontrabili nelle non lontane Corsica e Sardegna, a delineare circoli simbolici con probabile significato funerario. Tra i due siti il territorio presenta caratteristiche che potrebbero far pensare alla presenza di un antico luogo abitato. L'esistenza della necropoli ha fatto nascere miti e leggende nella fantasia popolare e probabilmente i luoghi sono stati anche danneggiati da sconsiderati cercatori di tesori. Diverse sono le ipotesi sulla possibile origine di questa area archeologica e altri ancora sono i siti megalitici presenti sulle pendici meridionali del Monte Capanne, tra i quali anche il celebre sito dei Sassi Ritti non distante dal paese di San Piero. Le teoria al momento ritenuta più valida dagli esperti è che questi monumenti siano riconducibili al periodo tra il II e il I millennio avanti Cristo, antiche testimonianze di un megalitismo diffuso anche in Corsica e Sardegna, collegabile alle fasi antiche dell'età dei metalli (fine età del rame-inizio età del bronzo).
Punto di interesse 4 E - Il cisto marino nella tradizione etnobotanica. Gli altri cisti presenti all'Elba
Per quanto riguarda la tradizione etnobotanica la letteratura (cfr le Schede del Percorso Etnobotanico di Capraia in www.islepark.it) ci parla degli usi officinali anche per il cisto marino che viene impiegato sin dall'antichità nella medicina come antinfiammatorio e cicatrizzante. Con le foglie si preparava un macerato alcolico noto come “cistosina” da applicare su ustioni, piaghe, dermatiti e punture d'insetto e di tracina. Ancora nella medicina popolare i fiori e rami erano usati in caso di asma e le foglie impiegate per preparare un the. Altro impiego popolare era quello di utilizzare i rametti con le foglie fresche per sgrassare e pulire i piatti. Fascine di cisto marino, all'Elba e sull'arcipelago noto anche come mucchio (mucchio pecito nel particolare caso del cisto marino) erano raccolte nel mondo rurale di una volta per accendere e scaldare i forni a legna per produrre schiacce e pani fragranti. Un'altra specie di cisto presente all'Elba, ancora con una fioritura bianca, è rappresentata dal Cistus salvifolius o cisto femmina, arbusto dal portamento cespitoso, con un'altezza massima di circa un metro, caratterizzato dalle foglie ellittiche e peduncolate che possono ricordare quelle della salvia, particolare da cui deriva il nome della specie. Le foglie del cisto femmina a differenza del cisto di Montpellier non sono ricche di oli essenziali. In primavera il cisto femmina si copre dei bei fiori bianchi ancora più grandi rispetto al cisto marino, raggiungendo un diametro fino a 5 cm. Ancora più appariscente è la fioritura del cisto villoso (Cistus incanus) o cisto rosa , altra specie che ammanta i pendii isolani. E' un arbusto dal portamento eretto ed espanso, dall'altezza simile a quella delle specie già ricordate, caratterizzato dalle foglie ovate od ellittiche interamente coperte da una peluria bianca. I suoi fiori sono rosati e molto belli, dai petali grandi e delicati, che appaiono spiegazzati quando sono completamente estesi. E' più tollerante per quanto riguardo il substrato rispetto ad altre specie prosperando anche sui terreni calcarei. Il cisto rosa era chiamato dai vecchi elbani mucchio maseto o mucchio caprino, e come avveniva per il cisto marino, le sue foglie venivano utilizzate per pulire le stoviglie, sfruttando probabilmente la fitta peluria che caratterizza questa specie.
3ª tappa Via dell'Essenza - Via della Lavanda
E' uno dei segmenti più impegnativi della Via dell'Essenza poiché in questa zona, per le caratteristiche orografiche, il nostro cammino si deve allontanare un po' di più dalla costa per inerpicarsi sulle pendici occidentali del Monte Capanne. Dopo aver lasciato la frazione di Mortigliano il sentiero 176 sale decisamente in una ricca macchia che copre vecchi terrazzamenti un tempo coltivati. La via culmina a circa 590 m di altitudine sul crinale di Campo alle Serre, non lontano dai ruderi del vecchio semaforo della Marina Italiana ormai abbandonato. I nostri passi, continuano sul sentiero n. 125, scendendo subito verso Chiessi lungo la mulattiera che un tempo serviva il semaforo, oggi a tratti profondamente incisa dagli agenti meteorologici, dal fondo fratturato e scomposto per gli eventi geologici che hanno interessato l'Elba occidentale: lungo la via sono evidenti gli effetti del termometamorfismo di contatto per la risalita del plutone del Capanne. A Chiessi, caratteristica frazione dell'Elba occidentale, ci infiliamo nel paesino per imboccare una mulattiera (sentiero n.126) che, dominata dall'alto dal monolite granitico del Colle di San Bartolommeo e sviluppandosi poco sopra l'odierna strada provinciale, attraverso vecchi terrazzamenti abbandonati ci conduce a Pomonte. Lungo il tracciato sono posizionati 5 picchetti che segnalano i seguenti punti di interesse :
Punto di interesse 3 A - La lavanda selvatica (Lavandula Stoechas)
Sui pendii isolani tra le piante la cui fioritura indica la fine dell'inverno e l'arrivo della primavera c'è la Lavandula Stoechas, Lavanda selvatica o Stecade. Si tratta di un piccolo arbusto xerofilo alto mediamente 40-60 cm, molto ramificato sin dalla base con fusti a sezione quadrangolare e con le caratteristiche foglie strette, morbide e vellutate per la fitta tomentosità, di colorazione verde grigia e molto profumate. Con la fioritura il piccolo cespuglio grigio si colora: i rametti sono sormontati da spighe quasi cilindriche sulle quali sono 2-3 brattee ben evidenti di colore viola, con i fiori veri e propri di colore blu violacei, anch'essi tomentosi e profumati. E' una pianta che troviamo sui pendii assolati e aridi, nelle macchie basse e nelle gariga, dalle zone costiere fino a 700 metri, prediligendo i terreni silicei. La lavanda selvatica ha un areale mediterraneo che va dalle coste dell'Africa settentrionale, escludendo la Libia, a quelle della Spagna e Francia e Italia, fino alla Grecia meridionale, Turchia, Palestina ed Egitto, anche se la sua diffusione prevale nel bacino occidentale. L'epiteto stoechas che definisce la specie farebbe riferimento, secondo Dioscoride, alle isole di Hyères, lungo la costa meridionale francese, denominate Stoichades dagli antichi naviganti greci. Proprio queste isole sarebbero state famose nel medioevo per l'esportazione della lavanda selvatica che vi cresceva spontanea. La Stecade ha un portamento più basso rispetto a quello della forse più celebre Lavandula officinalis o Lavandula angustifolia che supera il metro di altezza ed è coltivata in vaste estensioni nei campi della Provenza, ma anche in Piemonte e in Liguria. Quest'ultima si distingue anche per la tonalità di verde più intenso e meno grigio del suo fogliame, per la fioritura rappresentata dalla spiga più lunga, con fiori più radi azzurri e blu, e per il profumo più floreale e dolce rispetto a quello più intenso e speziato della L. stoechas.
Punto di interesse 3 B - Il Semaforo di Campo alle Serre
La costruzione del semaforo di Campo alle Serre fu decisa con un regio decreto del re Umberto I di Savoia del febbraio 1888 ai fini del controllo del traffico marittimo del Canale di Corsica in un luogo dominante su cui sarebbero stati presenti i resti di un'antica struttura d'avvistamento chiamata Guardia al Turco. A partire dall'unità d'Italia infatti si era iniziata ad affermare la necessità dell'istituzione di una rete di postazioni per il controllo e la difesa delle coste e della navigazione: nascono così i semafori quali istallazioni della Regia Marina con il compito di vigilanza e segnalazione. Lungo le coste italiane nel 1869 le postazioni erano 26 per divenire 33 nel 1874. Il personale impiegato era alle dipendenze del ministero della Marina ed era inquadrato come segnalatore. Nella parte settentrionale dell'Arcipelago Toscano prima della seconda guerra mondiale erano presenti tre semafori: Campo alle Serre nella parte occidentale dell'Elba, Monte Grosso in quella orientale e a Capraia, sul Monte Arpagna. Facevano parte della cosiddetta maglia di avvistamento che aveva il compito di riconoscere le unità navali in navigazione e di scambiare comunicazioni con queste tramite mezzi radio e ottici. Il semaforo aveva anche la funzione di segnalamento marittimo luminoso per i natanti che incrociavano ad ovest dell'isola: la sua collocazione elevata a ben 601 metri sul mare faceva sì che la struttura potesse essere nascosta dalle nubi che si addensavano intorno al Capanne per cui nel 1909 fu realizzato il faro di Punta Polveraia, nei pressi di Patresi. Il semaforo era caratterizzato da una particolare architettura che lo faceva assomigliare al ponte di comando di una nave. Il corpo principale rettangolare e in muratura si restringeva a ovest in una struttura minore a pianta semicircolare sormontata da un tiburio metallico ottagonale per l'avvistamento, collocato in posizione panoramica in modo da poter dominare il canale tra l’Elba e la Corsica. Vicino è il traliccio dell'antenna che permetteva le comunicazioni radiofoniche e telegrafiche. Nel 1920 vi era stato attivato anche un osservatorio meteorologico che ha registrato i dati fino al 1953, anno in cui venne probabilmente decisa la dismissione della struttura. Il complesso è oggi un rudere degradato privo di tetto, porte e finestre ed è opportuno rimanere all'esterno per motivi di sicurezza.
Punto di interesse 3 C - La nascita del plutone del Capanne e il suo anello termometamorfico
Tra i sei e o sette milioni di anni fa un imponente corpo magmatico, definito con termine più tecnico come batolite monzogranitico (dal grego Bathos profondo e lithos pietra) è risalito attraverso la crosta terrestre per consolidarsi dentro più antiche unità sedimentarie e ofiolitiche. Si è venuta a creare in questo modo la massa del plutone del Capanne, che tuttora è considerata con i suoi 9 km circa di diametro, la più grande formazione di questo tipo nell'Italia centrale e una delle maggiori del Mediterraneo occidentale. Il fenomeno è stato imponente perché la materia ignea molto viscosa a composizione acida, derivante da fenomeni di fusione di materiale crostale o subcrostale ha innalzato un vasto cappello di rocce al cui interno si è progressivamente intrusa e consolidata, iniettando vene di magma fuso nei livelli soprastanti, scompaginandoli e modificandoli dal punto di vista fisico e chimico per le importanti temperature e pressioni in gioco. Nella formazione dei plutoni la gran parte del magma risalito rimane però sepolta a profondità varianti tra alcune centinaia di metri fino a qualche chilometro per raffreddarsi e cristallizzare lentamente, per apparire alla luce del giorni solo dopo a lunghi processi erosivi e tettonici. Questa è una breve sintesi della nascita del complesso granodioritico, più volgarmente definito massiccio granitico del Monte Capanne, roccia che abbiamo già imparato a conoscere nel nostro cammino. Come già affermato nelle fasi di raffreddamento delle masse in consolidamento sono state emesse grandi quantità di calore che, insieme alle elevate pressioni dovute all'intrusione dei nuovi volumi magmatici, hanno modificato notevolmente le rocce incassanti creando nuove litologie, vale a dire rocce con caratteristiche fisico - chimiche diverse. Intorno alla base del Capanne è riscontrabile così quello che è definito l'anello termometamorfico dove le preesistenti serpentine sono trasformate in oliveniti, i gabbri e basalti in anfiboliti, le radiolariti in quarziti. Nel tratto che stiamo attraversando adesso sono visibili livelli calcarei e calcarei marnosi e argillitici che si sono trasformati plasticamente e in maniera suggestiva in marmi più o meno ricchi di quarzo, diopside e wollastonite, cipollini, scisti biotitici e granatiti.
Punto di interesse 3 D- La lavanda nella tradizione etnobotanica
Il nome delle Lavande deriva dal latino, dal gerundio del verbo lavare, alludendo al fatto che queste piante fossero impiegate in attività legate al lavaggio e detersione. La lavanda selvatica, conosciuta all'Elba col nome vernacolare di Isapo, è oggi sicuramente meno utilizzata dal punto di vista agrario rispetto alla specie L.officinalis che invece viene ampiamente coltivata per i suoi vari impieghi, soprattutto in profumeria e farmacia. La letteratura (cfr le Schede del Percorso Etnobotanico di Capraia in www.islepark.it) ci parla comunque degli usi tradizionali anche per la Stecade (L. Stoechas), in impieghi officinali con l'utilizzo delle foglie e fiori essiccati in decotto per la loro azione digestiva e antispasmodica. Ancora le sommità fiorite sono utilizzate nella medicina popolare per l'azione antisettica legata all'olio essenziale, ricco di canfora e fenchione. In cosmesi il macerato delle gemme in olio d'oliva viene applicato sulla pelle come antiseborroico. I sacchettini in garza di cotone contenenti i fiori o altre parti della pianta sono utilizzati nell'acqua della vasca da bagno per profumarla e per avere un'azione disinfettante e tonica della pelle. Come non ricordare il classico uso domestico con i fiori essiccati e inseriti in sacchettini per profumare gli armadi e gli indumenti insieme alla sua funzione antitarma. E' pianta ricca di nettare, frequentata dalle api per la produzione di un eccellente miele. Oggi la L. Stoechas è sempre più usata in giardinaggio per la sua natura abbastanza rustica soprattutto nei climi miti e per la sua bella fioritura che anticipa quella della L.officinalis, già molto diffusa nella tradizione vivaistica: inoltre i suoi fiori di un colore tra il viola e il porpora aggiungono una diversa tonalità ai nostri spazi verdi dandoci la possibilità di avere un terrazzo o un giardino fiorito e colorato impiegando un'essenza locale senza dover ricorrere a piante più esotiche.
Punto di interesse 3 E - La viticoltura eroica nella valli di Chiessi e Pomonte
Nel 1931 lo scrittore Pietro Pancrazi descriveva descriveva l'arrivo del battello postale ai piedi della valle di Pomonte che appariva come una ridente vallata produttiva, con frotte di asinelli che scendevano al trotto dalla montagna portando all'imbarco i prodotti agricoli. L'aspetto dei fianchi del Capanne attraversato dal corso d'acqua che scende dal rilievo dovevano apparire diversi dalla visione attuale dove è la macchia mediterranea ad ammantare i pendii: il luogo doveva sembrare come un vasto anfiteatro delineato dalle fila dei terrazzamenti e caratterizzato dalla precisione dei sentieri e scalette per raggiungerli, con le migliaia di canne e calocchie di erica che sostenevano le piante di vite, dal livello del mare fino a quasi cinquecento metri di altezza, creando uno scenario idilliaco, un vero e proprio santuario enologico costruito in secoli di viticoltura eroica. Le coltivazioni realizzate su muretti a secco iniziavano dal paese per salire progressivamente in brevi tratti lineari, altre erano inserite, quasi incastonate tra i grossi massi su quel terreno che era chiamato scaldeto, un fondo molto roccioso che assorbe il calore solare. Simili erano i terrazzamenti sui fianchi dei rilievi intorno a Chiessi, che risalivano il monte fin sotto il Colle di San Bartolomeo o a raggiungere il colle del Capo. I filari erano fitti con una distanza di 80 – 100 cm e le viti distavano 30 - 40 cm l'una dall'altra a riempire ogni spazio fruibile, con i tralci e i grappoli a volte direttamente appoggiati sui massi roventi presenti nei vigneti. Ormai possiamo solo immaginare quel paesaggio prima della vendemmia quando le viti portavano grandi grappoli di Biancone dal colore luminoso, di Procanico di un giallo oro e l'Aleatico dagli acini neri o di un intenso blu – vermiglio. Il lavoro sui terrazzamenti era duro perché fatto tutto a braccia, senza contare l'impegno fisico per salire quotidianamente alle vigne situate alle quote più elevate. In questi vigneti più alti erano situati i magazzini, piccoli casotti che servivano al ricovero degli attrezzi. Al loro interno erano anche i palmenti, vasche idonee alla pigiatura dell'uva, effettuata direttamente sul campo, e a volte anche caminetti, per il rifugio giornaliero, per fermarsi a mangiare al caldo o ogni tanto anche a dormire. Dai quei rifugi montani il vino sarebbe stato poi portato a valle con degli otri di pelle collocati sul dorso degli asini.